Dal 7 ottobre dei Sioux alla tremenda “Gaza” d’America


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Una lunga storia di tragedie
Solenni accordi poi infranti, dispute territoriali che portarono a vendette sanguinose, nessuna pietà per donne e bambini. Così “l’uomo bianco” e gli indiani discesero nella spirale dell’odio
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Un viaggiatore europeo nel cuore dell’America assiste a una scena terribile. Un popolo viene sballottato da un angolo all’altro del loro paese. Non ha più speranze. E’ destinato a soccombere. “Abbandonavano il loro paese e cercavano di passare sulla destra del Mississippi, ove speravano di trovare un asilo promesso loro dal governo americano. Eravamo nel cuore dell’inverno, il freddo si faceva sentire in quell’anno con insolito rigore; la neve si era indurita per terra e il fiume trascinava degli enormi ghiacci. Gli indiani conducevano con sé le famiglie; si tiravano dietro feriti, malati, bambini appena nati e vecchi morenti; non erano muniti di tende né di carri, e avevano soltanto poche provviste e armi. Li vidi imbarcarsi per traversare il gran fiume e non dimenticherò mai questo spettacolo solenne. Non si udivano fra questa folla né lamenti né pianti; essi tacevano; le loro sventure erano antiche e le sapevano irrimediabili. Gli indiani erano già entrati nel bastimento che li doveva portare, mentre i loro cani erano ancora sulla riva. Ma, quando quegli animali videro che essi partivano per sempre, mandarono terribili latrati, e lanciatisi nelle acque semighiacciate del Mississippi, seguirono i loro padroni a nuoto”.
Il viaggio di Alexis de Tocqueville, da cui scaturirà la sua Democrazia in America, ha luogo nel 1831. Il nostro testimone intuisce di assistere ad appena un fotogramma di una tragedia inarrestabile. Capisce che andrà a finire male per gli indiani. Impotente lui, impotenti le vittime. Del tutto disinteressata la vecchia Europa. Che aveva ben altro a cui pensare, grossi guai propri. “Chi li assicura che nel nuovo asilo potranno finalmente vivere in pace? Gli Stati Uniti si impegnano di mantenerveli; ma anche il territorio che essi occupano attualmente era stato garantito con i più solenni giuramenti”. Altro luogo, altra scena, trent’anni dopo. Incomparabilmente più cruenta. Ma sul filo di un’identica logica, la stessa trama. Estate 1862. Bande di Sioux attaccano gli insediamenti di coloni bianchi tra Dakota e Minnesota. Massacrano uomini, donne, bambini. Bruciano intere cittadine. Le vittime sono forse 500, forse 800 (anche allora le cifre erano ballerine). La più grande strage di civili bianchi della storia degli Stati Uniti. Forse di tutti i tempi, in proporzione alla popolazione di settlers interessata: tutt’al più 5.000. Si tratta soprattutto di immigrati. Profughi di etnie diverse, che cercavano di sottrarsi ai pogrom, alla fame della vecchia Europa. Gli indiani li accusano di volergli sottrarre le terre in cui avevano sempre vissuto i loro antenati, e che gli erano state promesse dal governo di Washington. Hanno ragione: c’è chi già le ha svendute a terzi. Malgrado un trattato avesse sancito che quella stretta striscia di terra lungo il corso del Minnesota apparteneva agli indiani. Il governo chiudeva un occhio. Gli indiani erano stremati da diversi anni di siccità e fallimento dei raccolti. Washington aveva stanziato fondi per assisterli. Ma gli agenti del governo li stornavano, intascandoli. L’intifada Sioux era iniziata con l’uccisione di cinque coloni da parte di una banda di adolescenti. Si erano poi unite alla ribellione altre bande e tribù, fino a quel momento sparpagliate, anzi ai ferri corti tra loro. Il gran Consiglio dei Dakota, dando per scontata una rappresaglia tremenda, aveva votato di scendere sul sentiero di guerra, malgrado l’opposizione dei capi più saggi.
“Famiglie furono bruciate vive nelle loro capanne, bambini inchiodati alle porte, ragazze stuprate da decine di energumeni, e quindi fatte a pezzi, bambini smembrati e i loro arti gettati in faccia alle madri”. Così il racconto di un testimone. Si erano accaniti in particolare nei confronti dei missionari, accusati di essere i principali trafficanti di terre, e delle loro famiglie. Il New York Times pubblicò dettagli orripilanti. L’orrore e lo sgomento erano moltiplicati dal fatto che indiani e settlers avevano lì convissuto pacificamente per un’intera generazione. I peggiori massacratori di indiani furono altri indiani, reclutati fra le tribù al soldo dei bianchi. “Gli indiani civilizzati avevano superato in atrocità i loro confratelli selvaggi”, si legge nell’articolo di apertura (a una sola colonna come da tradizione), dell’edizione del 24 agosto 1862.
La vendetta fu orrenda. Furono mandate a sedare le rivolta truppe raccogliticce, reclutate in fretta e furia. Il colonnello della milizia del Minnesota, Henry Sibley, per l’occasione promosso generale, era un politico locale che aveva fatto fortuna col commercio delle pelli. Fu una campagna spietata. Circondarono sistematicamente gli accampamenti Sioux, massacrando indiscriminatamente a cannonate donne e bambini. In un monumento inaugurato nel 1925 all’intestazione, che dice semplicemente “Umanità”, seguono i nomi e l’età della vittime. La stragrande maggioranza sono bambini al di sotto dei 10 anni. Nessuna distinzione tra combattenti e no, indiani pacifici o addirittura alleati. Niente pietà nemmeno per chi si arrendeva, esponeva bandiere bianche sui tepee. Al ritorno molti esibirono come trofeo gli scalpi degli indiani uccisi.
L’ordine era non fare prigionieri. Sibley odiava gli indiani. Anche per ragioni personali: due giorni prima di partire per la spedizione aveva saputo dell’uccisione della figlia Mary, di appena sette anni, e che il suo terzogenito era disperso, forse era stato preso in ostaggio. Messo sotto inchiesta dal Senato di Washington, per eccessi “indegni dell’Esercito degli Stati uniti”, si sarebbe difeso sostenendo che le atrocità erano state commesse dagli scout e mezzo-sangue al seguito delle sue truppe, i quali erano pratici di scotennamento. Disse che li aveva rimproverati per il loro comportamento da selvaggi. Aggiunse che gli eccessi avevano avuto effetti positivi, che dopo l’esempio duemila indiani si erano arresi e avevano liberato i 370 ostaggi bianchi in mano loro. Citò a discarico, con un certo effetto, la testimonianza di una donna bianca rapita dai Sioux. Si chiamava Fanny Kelly. Era stata catturata dopo che una banda di Sioux Lakota aveva assalito una carovana di immigrati europei diretta verso il Montana. Racconta che un guerriero Sioux le aveva dato da leggere una lettera sottratta a un soldato bianco ucciso, sostenendo che quello se l’era meritata, era un codardo e un essere inferiore. La Kelly l’aveva strappata dicendo che i soldati erano suoi amici. I suoi carcerieri, inviperiti, l’avevano punita torturandola con punte di frecce arroventate. La Kelly, tenuta schiava per cinque mesi, sarebbe poi riuscita a scappare. Aveva fatto in tempo ad assistere alla cattura di una ventina di coloni intercettati su un’imbarcazione nel fiume. Gli uomini erano stati uccisi immediatamente e gettati in acqua. Donne e bambini sopravvissuti erano stati torturati a morte il giorno stesso. Fanny dice che a farle più orrore di tutto fu uno scalpo di lunghi capelli rossi femminili appesi alla cintura del capo. Ma c’è anche un’altra versione: a liberarla e a farla lasciare nei pressi di Fort Sully sarebbe stato lo stesso capo Sioux Toro seduto. Forse perché creava scompiglio tra la sua gente. Forse perché aveva avuto sentore che i soldati la stavano cercando e voleva evitare altri guai.
Ad atrocità, atrocità e mezzo. Comunque sia, che gli ordini venissero direttamente da Sibley o meno, nessuno dei suoi soldati fu punito. E nemmeno lui. Che li facessero morire di fame e di stenti, dopo avergli massacrato il bestiame, disperso i cavalli, bruciato le tende e le scorte, non fu preso nemmeno in considerazione. C’era grande spirito e omertà di cameratismo tra i volontari del Minnesota. Alcuni erano avanzi di galera, natural born killers, assassini nati, arruolati con la promessa di libertà (e bottino). Altri erano mossi da ragioni ideologiche o religiose. I cronisti raccolgono testimonianze come quella del caporale Kelley, che dice di voler “uccidere e non risparmiare nessuno, cancellare ogni traccia di quella odiosa razza”, i pellerossa. Il soldato Pickett dice di odiarli al punto che “potrei ammazzare i più indifesi, le loro donne e i loro bambini, senza provare il minimo rimorso”. Detto, fatto. La campagna si era conclusa con la condanna all’impiccagione, da parte di una corte marziale, di oltre 300 indiani catturati. Gli imputati potevano dire la loro, ma non produrre testimoni. Non avevano difensori. Le uniche testimonianze ammesse erano quelle a carico. Bastava che qualcuno dicesse di averli visti con le armi in pugno, o di averli riconosciuti come perpetratori di atrocità ai danni dei coloni. Solo due erano accusati di stupro. Nessuno di avere ucciso bambini. In una cinquantina di casi fu prodotto un unico testimone, lo stesso. Era un indiano, che aveva preso parte alle scorrerie. Fu compensato con la commutazione della sua pena dall’esecuzione all’ergastolo. L’evidente arbitrarietà della corte militare suscitò, in un’America già sconvolta dalla Guerra civile, una vera e propria sollevazione in parte dell’opinione pubblica.
Presidente era Abraham Lincoln. Aveva in quel momento ben altre gatte da pelare. L’Unione era impegnata nella sanguinosa Guerra di secessione. In cui le brutalità non si contavano. Era in difficoltà, stretto fra le pressioni contrapposte di chi pretendeva che venissero puniti coloro che avevano infangato il buon nome degli Stati Uniti, e indirettamente la causa umanitaria della liberazione degli schiavi neri, e la sete di vendetta dei coloni del Minnesota. E’ già forse un miracolo che abbia sottratto tempo alla guerra, che in quel momento stava andando male per il Nord, per occuparsi di una questione tutto sommato “secondaria”. Ci mise due mesi ad arrivare a una decisione, che i biografi definiscono agonizing, qualcosa di più forte che contrastata e sofferta. Ordinò che il processo venisse rivisto, riconsiderando individualmente caso per caso. Scrisse che era “ansioso che, da una parte, non si agisse con eccessiva clemenza, in modo da non incoraggiare altre ribellioni, e dall’altra, che non si agisse con crudeltà”. Gli premeva che “l’onore degli Stati Uniti non venisse macchiato dall’aver giustiziato centinaia di prigionieri di guerra”. Lincoln era un giurista. Indicò come dirimente la distinzione tra “l’aver effettivamente preso parte ai massacri dall’aver partecipato ai combattimenti”. Trentotto mesi dopo giunse alla conclusione che andavano impiccati solo 38 dei 303 condannati. Fu la più grande esecuzione in massa della storia degli Stati Uniti. Lincoln era ancora vivo, la guerra civile volgeva ormai alla fine, quando l’America fu scossa da un’altra strage di donne e bambini indiani. Era il dicembre 1864. Anche quegli uomini abituati alle intemperie erano intirizziti.
“Arrivammo in vista dell’accampamento all’alba. Lo circondammo. Fu aperto il fuoco dalla distanza di 200 iarde [182 metri]. Io rifiutai di sparare. Urlavo che sparare era da codardi. Perché centinaia di donne e bambini stavano già venendo nella nostra direzione, gettandosi in ginocchio e implorando mercé. [Il maggiore] Anthony continuava invece a urlare: ‘Ammazzate i figli di puttana’ […]. Il massacro andò avanti per sei o otto ore. Credimi, cara Ned [Nelly], era dura vedere bambini piccoli in ginocchio ai quali veniva spaccata la testa da uomini che si consideravano civili. Una squaw era ferita. Uno [un soldato] stava per finirla con un colpo d’ascia. Lei aveva alzato le mani per difendersi. Lui le tagliò un braccio, poi, trattenendo l’altro braccio, le affondò l’ascia nel cranio. Un’[altra] squaw era in ginocchio, con i suoi due figli, circondata da una dozzina di soldati che le sparavano addosso. Un colpo andò a segno, colpendola alla coscia. Lei ebbe la forza di estrarre il coltello e tagliare la gola di entrambi i suoi figli. […] Furono tutti scotennati. Furono orrendamente mutilati. Una donna incinta fu sventrata, le strapparono il feto, la scotennarono […]”. Non risulta che se ne pentissero. Anzi, ne menavano vanto. Non ci sono foto o riprese. Non esistevano ancora i cellulari. Ma ci sono i disegni, naif ma meravigliosamente colorati, degli indiani che avevano assistito a quelle scene ed erano riusciti a sopravvivere nascondendosi nelle buche di fango formate dal fiume. Altre testimonianze, comprese quelle di commilitoni, raccontano di soldati a cavallo che rientravano dalla spedizioni punitive esibendo come trofei teste mozze, scalpi, genitali asportati, sia maschili che femminili. Pare che i macabri referti continuassero a venire a lungo esposti nei saloon malfamati di Denver.
La strage di Sand Creek non è la più letale, ma certamente la più truculenta e insulsa. Il numero delle vittime è ballerino. Ci furono ben tre inchieste ufficiali. Il colonnello John Chivington, che comandava la spedizione, si vantò di fronte alla commissione d’inchiesta di aver ucciso oltre 500 guerrieri. Non avrebbe mai rinnegato che gli ordini erano “ammazzare i Cheyenne quando e ovunque li si trovi”. “Noi siamo a caccia di scalpi”, aveva detto qualche giorno prima del massacro a un commerciante, James Combs, che aveva invitato a cena. Le ricostruzioni più recenti stimano che gli uccisi da parte indiana fossero attorno ai 150. Due terzi erano donne e bambini. I Cheyenne e Arapaho accampati a Sand Creek erano pacifici e disarmati. Non si attendevano l’assalto, si sentivano protetti dai molti solenni accordi intercorsi. Tra le molte testimonianze dirette, questa lunga lettera indirizzata alla moglie Nelly da uno degli ufficiali agli ordini del suo superiore, il maggiore Anthony, e del comandante Chivington. L’autore della lettera, il capitano Silas Soule, rischiava la corte marziale per aver disobbedito agli ordini, aver detto ai suoi uomini di non sparare. Conclude la missiva con due previsioni. Una sbagliata, l’altra assolutamente preveggente. Sbaglia nel ritenere che i comandanti dell’infame impresa saranno puniti “quando i fatti saranno conosciuti a Washington”. E’ profetico quando prevede che non è finita, è solo l’inizio di una nuovo ciclo di atroci violenze e atroci rappresaglie. “Mi attendo che si scatenerà l’inferno con gli indiani quest’inverno”.
L’inchiesta che seguì non ebbe conseguenze disciplinari per Soule che si era rifiutato di sparare a innocenti. Ma nemmeno per chi il massacro l’aveva ordinato e perpetrato. La commissione d’inchiesta aveva concluso che Chivington aveva disonorato “l’uniforme degli Stati Uniti, che dovrebbe essere simbolo di giustizia e umanità”. Ma non gli furono comminate sanzioni. Chivington lasciò l’esercito l’anno dopo, alla regolare scadenza del suo mandato di servizio. La lettera di Soule non venne considerata al processo. Non gli fu nemmeno chiesto di spiegare perché aveva disobbedito agli ordini. Poi sparì. Finché l’originale non fu ritrovato nel 2000. I commilitoni comunque non gli perdonarono di aver osato denunciare le loro efferatezze. Soule fu ammazzato pochi mesi dopo, in strada, in pieno giorno, a Denver.
L’opinione pubblica era visceralmente divisa. Tirata in una direzione e in quella opposta da vere e proprie guerre tra giornali. Ci fu chi se la prese col fatto che Washington aveva stanziato risarcimenti per gli indiani sopravvissuti. C’era chi non si stancava di ricordare che il massacro era giustificato da un episodio atroce successo poco prima. Avevano avuto un loro 7 ottobre. Un’intera famiglia, gli Hungate, era stata massacrata nella loro fattoria a est di Denver. I corpi martoriati erano stati portati ed esposti in città. I giornali si erano scatenati. Il Rocky Mountain News scrisse che era una fortuna che il colonnello Chivington fosse stato trombato in un suo precedente tentativo di candidarsi al Congresso degli Stati Uniti e avesse potuto dedicarsi a materie militari, e diventare “il nostro angelo vendicatore contro quei figli del demonio delle praterie”. Più tardi aveva attaccato il rivale Daily Mining Journal che invece difendeva Soule che aveva denunciato le atrocità. “Sono sempre pronti a scusare, giustificare, glorificare gli indiani […] Danno credito a storie ripetute da mezzi sangue, gente che commercia con gli indiani e simpatizza con loro, anziché alla versione di un onorato ufficiale […] Le nostre simpatie vanno invece all’uomo bianco, e tra le due storie siamo inclini a credere alla sua. Il Journal fa l’esatto contrario. Preferisce gli indiani, scusa gli indiani, giustifica gli indiani, crede agli indiani”.
Naturalmente non finì lì. Le carovane continuarono a essere assalite lungo le piste che portavano all’Oregon e alla California, i coloni a venire uccisi con le loro famiglie. L’escalation di ostilità e atrocità, di vendette e controvendette continuò ininterrotta. A Fort Kearny, nel Wyoming, costruito a protezione del Bozeman trail, una delle vie verso l’Ovest, un distaccamento si era incautamente lanciato all’inseguimento di una delle bande di Cavallo pazzo. “Occhi strappati; nasi mozzi; orecchie mozze; mandibole segate; denti strappati; falangi e dita, cervelli asportarti dal cranio, visceri; mani mozze; piedi mozzi; genitali […]; cadaveri nudi crivellati di frecce; su uno ne contammo ben 105 […]”, questo lo spettacolo si era presentato ai rinforzi inviati a vedere che ne era stato. Risparmio al lettore il resto. L’annientamento del Settimo cavalleria del generale Custer, nel giugno 1976, segue di ben un decennio i fatti di Sand Creek. Cavallo pazzo, che si era arreso, fu ucciso nel settembre dell’anno seguente con un colpo di baionetta, mentre cercavano di portarlo in cella. Gli indiani continuarono a perdere progressivamente i territori di caccia e i loro mezzi di sostentamento. Proseguì l’estinzione del bisonti. I bianchi li cacciavano per asportare la sola lingua, lasciando la carcassa a marcire. Divenne di moda sparargli per divertimento dai finestrini della ferrovia transcontinentale. L’elenco dei raid indiani e delle contromisure punitive è lunghissimo. Si estende a Novecento inoltrato. Le deportazioni forzate di popolazioni da un angolo all’altro degli Stati Uniti, appropriazioni arbitrarie di territorio, la spirale di massacri e rappresaglie erano cominciati già secoli prima, praticamente con l’arrivo dei primi colonizzatori. L’apice della ferocia è però più antico. C’era stata durante le guerre che avevano condotto all’Indipendenza. Inglesi e francesi prima, canadesi e americani poi, utilizzavano come alleati tribù, anzi “nazioni” indiane che si erano da sempre combattute l’una contro l’altra. Indiani buoni contro indiani cattivi. E’ quel che succede in uno dei romanzi fondanti dell’epopea americana, L’ultimo dei mohicani. Il peggio doveva ancora venire. Go west young man è l’esortazione in genere attribuita al politico e direttore del New York Tribune Horace Greeley. “Qui gli affitti sono alti, il cibo è cattivo, la polvere è disgustosa, i costumi morali sono deplorabili. Vai verso Ovest ragazzo, vai a Ovest, dove ci sono terre fertili e possibilità nuove, e cresci col tuo Paese”, la formulazione estesa.
Il problema era che su quelle terre vivevano altri. Per farcela, anche solo per sopravvivere, bisognava essere duri e determinati, essere pronti a uccidere o venire uccisi. L’America nasce e cresce sulla violenza. Ne ha fatto un mito fondatore. Violenti gli indiani, violenti i coloni, violenti anche gli uomini di Chiesa, violenti gli eremiti che si addentrano per mesi da soli in lande desolate. Violentissime le lotte del lavoro, con scioperi che finiscono a fucilate. Violenta la repressione dei violenti. Violenti i fondatori di sette o nuove religioni. Legge e ordine si sono imposti con la Colt, la Smith & Wesson e il Winchester a ripetizione, i marchi rivali. Il revolver è una delle più importanti invenzioni che l’America ha dato all’Europa e al mondo. Assieme, verrebbe da aggiungere, alla roulette russa, che consiste nell’azzardo di premere il grilletto puntato alla propria tempia senza sapere se l’unico proiettile sia allineato o meno con la canna. Quel che cambia sono le narrazioni. Ho passato un’intera notte a vedermi la nuova serie su Netflix, American primeval. E’ scritta da Mark L. Smith e diretta da Peter Berg. La vicenda inizia nello Utah dove i Mormoni, con l’aiuto di mercenari indiani, si rendono responsabili di uno dei peggiori massacri di pionieri, attribuendolo agli indiani. Si conclude con i protagonisti, una donna coraggiosa, suo figlio zoppo, un cacciatore solitario che cercava di dimenticare gli orrori che ha vissuto rifugiandosi tra monti e foreste, diretti verso la California dopo essersi lasciati dietro una scia di sangue per legittima difesa. Imperdibile, se si vuole capire le radici profonde di quel che ci sorprende e ci atterrisce nell’America di Trump.
Sono sempre stato, fin da ragazzo, un fan dei western. Son cresciuto guardando film in cui indiani perfidi e cattivi uccidevano bianchi innocenti, assaltavano diligenze e carovane. Poi sono diventato adulto quando nelle sale si proiettava Piccolo grande uomo con un formidabile e giovanissimo Dustin Hoffman, Un uomo chiamato cavallo, Soldato blu e Balla coi lupi. Sino alla recente epopea di Martin Scorsese, Killers of the Flower Moon, in cui gli avidi assassini interpretati da Robert De Niro e Leonardo DiCaprio si appropriano del petrolio degli indiani Osage. Tempi e gusti cambiano vorticosamente. Non mi piacerebbe un ritorno del pendolo a miti e propaganda rancidi. Non mi appassionano le diatribe semantiche. Preferisco stare ai fatti. Che li si chiami peccato originale, prepotenza coloniale, terrorismo, massacro, fanatismo, sterminio, crimini di guerra, pulizia etnica o genocidio, non credo faccia troppa differenza. A Raphael Lemkin, il giurista ebreo che dalla Polonia si rifugiò negli Stati uniti, viene attribuito l’aver coniato il termine “genocidio”. E’ meno noto che, oltre che dell’Olocausto, si era occupato a fondo degli indiani. Ecco il modo in cui la mette: “Il genocidio comporta due fasi: una, la distruzione del tessuto nazionale del gruppo oppresso; l’altra, l’imposizione del tessuto degli oppressori. Questa, a sua volta può essere fatta sulla parte di popolazione oppressa cui è consentito rimanere, o sul territorio soltanto, dopo la rimozione della popolazione e la colonizzazione dell’area da parte degli oppressori”. Il resto è tifo da bar o rissa da talk show.
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